domenica 27 settembre 2009

Quando il gioco è gioco?

No, non ho fatto le ore piccole in compagnia di Marzullo e delle sue domande esistenziali (da questo punto di vista, sono più un tipo da Gabriele La Porta... sag-gez-za...). E' solo che proprio ieri, passando assieme a mio padre qualche ora in macchina di ritorno verso Roma, il discorso è caduto sull'identificazione del concetto stesso di gioco. 
Quando un gioco si può dire tale? Quando cioè un'attività umana assume la connotazione ludica e, per converso, quando un'attività umana classificata convenzionalmente come gioco non è più tale?
Complice la mia attuale lettura de "I giochi degli uomini" di Roger Caillois (edito da Bompiani), ho subito usato come pietra di paragone i giochi d'azzardo. L'antropologo francese individua quattro elementi essenziali per la definizione di "gioco" (la competizione, il caso, la maschera e la vertigine) e applica tale classificazione a molti tipi di giochi, primi tra tutti proprio quelli in cui il calcolo dei rischi si accompagna alla possibilità di un tornaconto economico personale.
Io, tuttavia, non sono del tutto d'accordo. Da questo punto di vista sono un huizinghiano convinto, un assertore cioè dell'estensione della connotazione ludica ad attività apparentemente "serie" come cultura o cerimonialità religiose nelle quali i quattro elementi di Caillois non si ravvisano o ricoprono ruoli minori, e soprattutto sostengo con forza la necessità di un "quinto elemento" ludico: la gratuità. Per Huizinga il gioco è essenzialmente attività gratuita, avulsa da scopi materiali immediati e con un fine interno a sè stesso; si gioca, cioè, per giocare, per il godimento che ci dà il gioco stesso e per il mantenimento della realtà ludica che noi stessi abbiamo creato. Inserendo tale elemento nella nostra equazione possiamo estendere - a mio parere, giustamente - il concetto di attività ludica a molti elementi della nostra vita e ravvisare proprio nel gioco la radice storica prima del nostro progresso culturale, così apparentemente "inutile" ma anche così fondamentale per la nostra esistenza.
Ma, per scendere dalle nuvole, possiamo allora dire con certezza che i giochi in cui la posta finale ha un valore materiale non sono più veri giochi? Il mercante in fiera o la tombola del Natale grazie al quale il nipotino vince al nonno una decina di euro, il torneo di giochi di carte collezionabili che dà in premio al vincitore dieci nuovi mazzi di carte, la serata al bowling con gli amici nella quale il perdente dovrà pagare da bere a tutta la comitiva non sono forse dei giochi?
Facciamo un po' di ordine. La connotazione di "gratuità" del gioco ci porta ad asserire che il gioco è un'attività a fine interno: il suo scopo è giocare, non creare qualcosa di materialmente utile o garantirsi una posizione di vantaggio. Il "profitto" che se ne ricava deve essere essenzialmente riconducibile al gioco stesso, deve essere una gratificazione commisurata alle energie spese per partecipare all'attività ludica in questione. Si viene insomma a creare un livello adeguato di profitto dal gioco, che si può anche tradurre in un corrispettivo ma dal valore prettamente simbolico (i dieci euro vinti dal nipotino a tombola, il diritto di vantarsi con gli amici perchè si sono vinte tre battaglie a Warhammer di fila, un boardgame del valore di una cinquantina di euro a fronte di un torneo durato due giorni) e non un profitto economico la cui consistenza va al di là del singolo momento ludico o delle normali relazioni interpersonali che ho con gli altri giocatori (il piatto da duemila euro di una partita di poker "pesante", il prestigio politico di aver dimostrato il proprio valore bellico alla fine di un torneo cavalleresco, giochi e miniature per il controvalore di un migliaio di euro).
La definizione essenziale può essere: "Quando il premio di un'attività ludica consiste in un vantaggio materiale sproporzionato rispetto agli sforzi spesi per la partecipazione a detta attività, o quando esso rappresenta un vantaggio che esula dai rapporti interpersonali convenzionali che legano i partecipanti tra loro, non si può parlare più di gioco ma di profitto".
Chi, come me, ha una formazione giuridica troverà in questa definizione echi del concetto civilistico di "ingiustificato arricchimento", non a caso sanzionato dal codice perchè estraneo al normale "gioco" dei rapporti economici e sociali. 
Certo non è semplice, nel mondo del gioco come in quello del diritto (straordinariamente affini, mi suggerisce il buon Huizinga), capire quando un arricchimento è ingiustificato e sproporzionato rispetto alle attività compiute da un soggetto. Applicando però tale norma con un po' di elasticità e di intuito interpretativo, ci accorgiamo che gli stessi giochi d'azzardo cessano di essere giochi quando la posta diviene "troppo alta" (un limite percepito da tutti, e il discrimine che trasforma un giocatore da "appassionato" a "professionista") ma che sono perfettamente ascrivibili al mondo ludico quando si tratta di un semplice passatempo nel quale non si rischia di perdere la camicia, o peggio...
A cosa ci serve tutto questo? Non certo a criticare a priori attività che si fanno passare per giochi ma che in realtà non lo sono (per quanto mi dia veramente fastidio che scommesse, videopoker, lotterie, casinò e affini vengano comunemente definiti "giochi"), quanto a capire quando chi ci sta intorno inizia a fare sul serio e - nel caso - quando è giunto il momento di alzarsi dal tavolo e dedicarsi ad attività realmente ludiche e soprattutto meno rischiose.

sabato 19 settembre 2009

Un bieco post di autopromozione personale e familiare!

Ariecchice qua! Giocaroma è finito, ma le gallery fotografiche (compresa quella del sottoscritto) della convention le potrete trovare qui (e non dimenticate di vedere anche le altre!).
Altra notizia di servizio, questa volta venata da un po' di sana autopromozione familiare: nell'ultimo numero di Dungeon Magazine (il 25, scaricabile qua) troverete un interessantissimo articolo di Sinclair senior (il mio papà, primo responsabile delle mie manie ludiche) sulla grandiosa esperienza di "Pergioco", la prima rivista italiana che negli anni '80 si occupava di tutto il mondo del gioco. L'articolo ve lo consiglio caldamente, perchè narra in maniera un po' divertita ma anche malinconica dei primi passi della cultura ludica nel nostro Paese: una cultura ludica alta, ragionata e sentita, portata avanti con spirito da pionieri... una cultura che ha molto da insegnare a noi giocatori di oggi.
Detto ciò, vi saluto e torno dal nuovissimo arrivato in casa: il nostro piccolo gattino Oliver. Perchè questo nome? Ma da Oliver Cromwell, eroe della Guerra Civile Inglese e Lord Protettore di Scozia e Inghilterra, nonchè primo vero artefice dell'Impero Britannico.
Io ve l'ho detto che sono malato...

martedì 1 settembre 2009

Spagna, 1811

"Il fumo dei moschetti si innalzava sopra i due carretti ricolmi di fieno, dietro i quali si intravedeva il luccichio delle bacchette che ricaricavano freneticamente i colpi successivi. Dall'altro lato della strada sterrata, rispondeva l'eco degli ordini secchi impartiti dal tenente Simmons. L'aria torrida di quell'angolo dimenticato di Spagna era già pregna dell'odore acre della polvere da sparo, conseguenza inevitabile del prolungato scontro.
Daniel si lasciò sfuggire un'imprecazione, mentre scivolava sul terreno cercando riparo dietro la collina. Una normale missione di perlustrazione, uno di quegli incarichi che sembravano fatti apposta per farti ammazzare... e quel giorno lui e gli altri uomini della sua squadra si erano imbattuti in un gruppetto di volteggiatori francesi, molto probabilmente un picchetto di avanguardia dell'armata del maresciallo Marmont, che occupava l'arida regione della Castiglia.
Spagna, Marmont, Castiglia, Wellington... tutti nomi che importavano ben poco al soldato semplice Daniel Tippett, inchiodato su quello stramaledetto pendio dal tiro dei francesi. Il tenente Simmons con il grosso della squadra li stava tenendo a bada attraverso la strada sterrata, ma un piccolo gruppetto di volteggiatori si era rapidamente portato sul fianco, nell'ovvio tentativo di aggirarli. Il caporale Becker aveva fatto le spese di questa manovra, rimanendo centrato in pieno petto da un colpo di moschetto francese e adesso due volteggiatori occupavano la piccola siepe bruciata dal sole che fino a pochi istanti prima era stata tenuta da Daniel e dai suoi compagni. Il fianco della squadra era in pericolo.
Dietro di lui, il sergente Walters urlò: "Tippett, Hastings, muovete le vostre chiappe gallesi e riprendete quella maledetta sterpaglia!"
Daniel si voltò per cercare il viso del commilitone. Nella polvere che si alzava da terra, vide solo il rosso della sua uniforme che scattava in avanti, pronto a risalire il pendio. Ansioso di menare le mani, lo seguì, correndo a più non posso.
Stava ancora salendo e i pennacchi degli shako francesi già si vedevano spuntare dietro la siepe. Daniel proseguiva sicuro, puntando in avanti il suo moschetto e contando mentalmente i secondi: era passato troppo poco tempo dai loro ultimi spari, quei due mangiarane non avrebbero avuto il tempo di ricaricare...
Due nuvole di fumo si alzarono dal piccolo roveto... una seguita da un'imprecazione per la cilecca del moschetto ricaricato troppo in fretta, l'altra seguita da un lampo metallico che attraversò l'aria. Daniel si buttò a terra, istintivamente, e si girò di nuovo verso Hastings: l'uomo era riverso a terra, agonizzante e con la bacchetta del moschetto francese piantata in gola.
L'impeto della carica era perso e il contrattacco era irrimediabilmente fallito: i francesi potevano ora limitarsi a fare il tiro al bersaglio dalla collinetta. Vedere un terzo volteggiatore francese prendere posizione dietro la siepe con il moschetto puntato su di lui fu una semplice formalità, perchè perfino un mastino come il sergente Walters era adesso costretto a ordinargli di mettersi al riparo. Il tenente Simmons, che nonostante tutto il suo sangue blu non era poi uno stupido, si stava sgolando per ordinare al resto della squadra di ripiegare nel vicino boschetto.
Daniel non attese altro. Voltò poco gloriosamente le sue chiappe gallesi e corse verso un gruppetto di alberi, inseguito dalle urla di trionfo dei francesi e dal suono dei colpi di moschetto sparati un po' a casaccio verso gli inglesi in fuga.
La solita giornata storta..."
Tutto questo grazie a una ventina di soldatini di plastica, tre dadi (grazie, amore, i dadi dell'Imperatore funzionano davvero!), una plancia di compensato di 90 centimetri di lato e qualche elemento scenico sparso... per non parlare dell'ovatta utilizzata per ricordarsi chi aveva sparato e quindi era costretto a ricaricare!
Una normale partita di prova a Song of Drums and Shakos, un regolamento per piccoli scontri a fuoco del periodo napoleonico, semplice e veloce, consigliatissimo per esperti e non. Un normale esempio di quanto si possa evocare su di un qualsiasi tavolo grazie al wargame.
Ora, dopo la partita il vero appassionato si metterà a discutere per ore sull'attendibilità storica delle regole, su quanto il sistema di attivazione dei singoli modelli rispecchi la realtà, sull'effettiva rapidità del gioco... è inevitabile, e quel sabato di Agosto lo abbiamo fatto anche noi. Ma il vero appassionato, che gli piaccia o meno un certo regolamento, si sarà divertito perchè avrà rievocato la scena di un film o di un romanzo di cui lui e il suo avversario sono gli unici autori.
Questo è il potere evocativo del gioco. Questo è il motivo per cui giocherò finchè avrò vita.

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...