giovedì 22 aprile 2010

Io e Warhammer

E' di pochi giorni fa la notizia ufficiale dell'imminente uscita della nuova edizione di Warhammer Fantasy. Per chi non lo conoscesse, IL wargame fantasy per eccellenza, il più diffuso e senz'altro il più amato e odiato regolamento esistente sul mercato. Di sicuro, il meglio supportato da un punto di vista commerciale, grazie alla sterminata (e costosetta...) gamma di miniature prodotta dalla sua casa produttrice, quella Games Workshop di cui già abbiamo avuto modo di parlare in passato.

Ora, Warhammer ha mille pecche, in certi punti è rimasto ancorato ad uno stile di regolamento ormai superato, viene spesso concepito solo per vendere altre miniature privilegiando un esercito a scapito di un altro... ma è Warhammer. Bello, movimentato, in certi momenti fin quasi eccessivamente “epico”.

Per me Warhammer ha il sapore del liceo. Ha il ricordo di una di quelle vagabondate del sabato pomeriggio nelle quali io e i miei amici – ancora con lo zaino di scuola in spalla e impazienti di goderci un finesettimana di libertà – eravamo soliti girare per i principali negozi di musica (loro), per i pochissimi negozi di giochi (io) e per i più forniti negozi di fumetti (tutti quanti). Perchè fu in una di quelle passeggiate al quartiere Prati di Roma che io, alla ricerca di qualcosa di tutto mio diverso dai wargame storici con i quali popolavo le serate di gioco con mio padre, vidi una gigantesca scatola colorata con sopra un reggimento di splendenti picchieri elfici e un'orda di feroci goblin. Ricordo l'eccitazione che mi spinse ad aprirla lì, mentre ero ancora davanti al negozio, attirandomi le occhiate di invidia e di stupore di alcuni ragazzi che come me non si capacitavano dell'enorme mole di miniature, elementi scenici, template di plastica, segnalini e manuali racchiusi in quello scrigno.

Si trattava, poi ho ricostruito, della quartaedizione, più razionale e lineare delle prime caotiche versioni del regolamento ma ben lontana dalle raffinatezze delle edizioni attuali.

Purtroppo tutto quel ben di Dio è andato sprecato. Non ho mai giocato una sola partita di Warhammer. Non che non abbia comprato o dipinto cose (Vi ricordate? Il mio esercito imperiale è il Progetto n. 5 per quest'anno e la mia libreria è piena di supplementi e manuali per almeno altre due edizioni del gioco). E' solo che per mancanza di avversari e anche di un po' di voglia non sono mai andato al di là della visione esterna di qualche partita dimostrativa alle convention o di qualche scontro nell'ambito di un torneo. E così i miei tenaci reggimenti imperiali, le mie potenti macchine da guerra e anche le mie valorose schiere di cavalieri bretonniani sono sempre rimasti a prendere polvere in cantina o ad invecchiare negli armadi.

E devo dire che il tono generale dei prodotti della Games Workshop non mi ha aiutato in questo. Leggere un numero di White Dwarf - la rivista della ditta - significa sottoporsi ad una serie di iperboli apparentemente mirate a solleticare l'immaginazione di un ragazzino di dodici anni particolarmente scemo. Tutti i guerrieri sono “formidabili”, tutte le armi tirano colpi “spietatamente efficaci”, tutti gli incantesimi sono “terribilmente devastanti”, tutte le cariche di cavalleria “non lasceranno scampo alle attonite schiere del nemico”. Eccetera eccetera. Viene da chiedersi che la vera rarità in Warhammer sia un soldato semplice come molti altri che stringe disperatamente la sua picca tra le mani pregando di non finire sbudellato dal primo orchetto che passa.

Insomma, è un'atmosfera piuttosto fastidiosa per un ultratrentenne che chiede solo una diversione ad un gioco fantasy e non una sequela senza fine di dissenterie verbali. E' di guerra che parliamo, non di fuochi d'artificio e l'epicità non la si ottiene urlando ma mantenendo alto il tono della narrazione.

In effetti, anche quando ho scoperto una realtà associativa in cui gli avversari (e anche gli amici) non mi sono più mancati, Warhammer mi ha sempre un po' respinto. La sua massa di regole speciali, di oggetti magici, di truppe con caratteristiche particolari ed eccezioni al regolamento, le sottigliezze della composizione di un esercito (che, se sbagliata, talvolta condanna alla sconfitta prima ancora dell'inizio della partita) e altro ancora me ne hanno tenuto lontano, nonostante l'ambientazione mi piaccia davvero (a chi non piacerebbe un fantasy sostanzialmente ambientato nel Cinquecento, con tanto di armi da fuoco e per l'Impero anche macchine da guerra leonardesche?) e l'idea di combattere una bella battaglia con mostri e incantesimi mi stuzzichi molto.

Il problema non è dovuto a un mio scarso amore per i wargame fantasy. Al contrario, ne ho provati diversi in questi anni e mi sono fatto molto coinvolgere da Guerra dell'Anello della stessa Games Workshop (e vorrei tanto provare a fare qualche scontro per il caro vecchio gioco di schermaglia del Signore degli Anelli).

Insomma, Warhammer rappresenta per me una vecchia sfida mai vinta, un vuoto ancora da colmare e al quale periodicamente mi dedico senza riuscire però a “partire” davvero. Ma nonostante ciò, è un leit motif della mia esperienza ludica che continuo a seguire, pur da lontano.

Quella che è stata appena annunciata è l'ottava edizione. Magari questa volta ci farò un giro.

lunedì 12 aprile 2010

Il potere evocativo del gioco

Di tardo pomeriggio, sulla Piana di Zama, Lelio, comandante in seconda dell'esercito di Scipione l'Africano, conduce la sua cavalleria in una disperata carica contro le linee della fanteria nemica. La carica riesce, ma il drappello dell'ufficiale viene isolato e distrutto. Ma Lelio, dando prova del suo valore di comandante romano, non si dà per vinto e, dopo essersi rifugiatosi temporaneamente presso le fila di un distaccamento di alleati italici, si riunisce ad un altra schiera di cavalieri. Punta diritto contro un nutrito gruppo di guerrieri gallici, armati pesantemente e lanciati in una feroce carica contro le linee romane... la ragione e il buon senso sconsiglierebbero una tale azione, ma Lelio da vero coraggioso si frappone all'avanzata nemica per salvare il fianco dei legionari rimasto esposto. E contro ogni aspettativa vince, fermando l'attacco barbarico.

Poche settimane dopo, sulla piana di Gaugamela, il giovane Alessandro il Macedone affronta un gigantesco esercito persiano con le sue ancora imbattute falangi di picchieri e i suoi fedeli compagni cavalieri. La cavalleria leggera nemica tenta un aggiramento, Alessandro fiuta il pericolo e si lancia alla carica... troppo pochi i suoi uomini, il giovane comandante è ferito e cade da cavallo. All'orizzonte, un altro drappello di  cavalieri vede il tutto e accorre per vendicare il proprio sovrano. Moriranno tutti con valore, ma il loro sacrificio non sarà vano: al centro della battaglia l'imperatore persiano Dario ha guidato una carica contro le foreste di picche e lance greche, ed è stato ucciso: l'azione dei cavalieri macedoni ha dato tempo alle lenti formazioni di fanteria pesante di raggiungere il nemico che, con la morte del suo imperatore, perde la volontà di combattere e si dà alla fuga.

Tutto questo in un paio d'ore per battaglia, nel salotto di casa mia. Tutto questo grazie ad un wargame (nel caso, l'ottimo Commands and Colors: Ancients, ma il discorso vale per qualsiasi gioco ben realizzato), tutto questo aggiungendo ai dadi e alle pedine un po' di immaginazione.

Non c'è molto da dire. Quando un gioco è bello spesso evoca delle belle immagini, delle scene cinematografiche di cui noi stessi siamo i registi. Vedremo le nostre cariche gloriose e onoreremo i nostri reggimenti più valorosi, esulteremo quando la nostra strategia di gara basata su di un solo pitstop ci porterà alla vittoria del Gran Premio, ci dispereremo quando una tempesta improvvisa avrà fatto naufragare le navi che trasportavano le nostre mercanzie da rivendere...

E questo, se siamo stati fortunati e abbiamo scelto bene i nostri avversari, in compagnia dei nostri amici (grandi Zerloon e Rothmoni!) o anche delle persone che amiamo (cara Benedetta, lei e la sua mania di scegliere sempre di impersonare Gaius Baltar in Battlestar Galactica... senza mai ritrovarsi ad essere un cylone!!!), condividendo il divertimento con loro.

Non so, forse sono io, ma questo potere di proiezione delle nostre immagini, catalizzato da qualche blocchetto di legno e da un paio di dadi mi è sempre sembrato qualcosa di incredibilmente bello.

Mi piace e per questo continuo a farlo.

martedì 6 aprile 2010

Il senso ludico interno: il tempo

Ovvero, come unire la passione per il gioco con quei pochi e confusi ricordi liceali della filosofia kantiana. In altre parole, una risposta un po' scherzosa e paradossale ad un interrogativo più curioso che realmente utile: in che modo lo spazio e il tempo, le due forze nelle quali noi ci muoviamo nella nostra attività intellettuale (e quindi, per estensione, anche nella nostra attività ludica intesa come forma di espressione delle nostre capacità intellettive), influiscono sul gioco e sul giocare.



Cominciamo dal tempo, la forma del senso interno per il nostro caro Kant: quanto la durata di una partita influisce sul gioco e quanto essa può venir presa come metro di misurazione di un determinato titolo ludico?

Il tempo è limitato, per tutti noi. Sia che siamo degli universitari perditempo che degli impiegati alla disperata ricerca di un'oretta libera, sia che siamo dei single impenitenti che degli uomini o delle donne di famiglia con mille preoccupazioni a cui badare, il passare dei minuti e delle ore è per noi un qualcosa di inesorabile. Piacerebbe a tutti poter dedicare una quantità infinita di tempo alla nostra attività preferita – non a caso detta anche “passatempo” – ma questo non ci è concesso. E quindi non possiamo permettere che un gioco, seppur bello ed affascinante, ci costringa a dedicarci ad esso per giornate intere, tralasciando quelli che sono i nostri pur più noiosi doveri.

Eppure, vi è chi accetta partite dalla durata indefinita (conosco wargamer più che felici di affrontare regolamenti a “tempo reale”... un eufemismo per definire simulazioni della battaglia di Austerlitz che durano esattamente quanto durò la battaglia reale: “solo” una decina di ore di gioco e passa la paura...), mentre altri si “stufano” già dopo un'ora passata davanti allo stesso tabellone.

Personalmente il mio senso del tempo ludico varia molto, in base al titolo che ho di fronte e – lo ammetto – anche a seconda del mio umore di quella giornata. Ho giocato volentieri per ore a titoli appartenenti a generi che non amo troppo, e allo stesso tempo ho “rigettato” wargames che già dopo venti minuti mi avevano letteralmente nauseato...

Ora, non fatemi fare la fine del Prichard in quella meravigliosa scena di quell'altrettanto meraviglioso film che è L'attimo fuggente, ma credo che – prendendo a prestito una definizione della fisica e muovendosi con tutte le cautele del caso – sia possibile individuare un metodo di valutazione dell'“intensità” di un certo gioco: l'intensità ludica è pari al livello di soddisfazione e divertimento che un determinato gioco è in grado di darci, rapportato alla durata media di una partita.

Per comprenderci, sono più che disposto ad accettare le due-tre ore di uno scontro a Tide of Iron visto quanto mi piace questo titolo, mentre non sopporto nemmeno dieci minuti di Wreckage visto il moto di ribrezzo che mi prende ogni volta che solo penso a quell'immonda schifezza.

L'intensità deve essere costante e rimanere sempre ad un certo livello: se un gioco mi dà una soddisfazione, diciamo, di quattro a fronte di una durata di due (con intensità ludica pari a due), un gioco che duri quattro dovrà almeno darmi una soddisfazione di otto per mantenere l'intensità a due (otto diviso quattro fa per l'appunto due)... se invece continuasse a darmi solo “quattro” mi piacerebbe di meno (quattro di soddisfazione diviso quattro di durata fa solo uno di intensità). Una girandola di numeri per dire più semplicemente: perchè lo consideri alla pari, un gioco più lungo mi deve divertire complessivamente almeno il doppio di un altro più breve che duri la metà. E' ciò che mi rende un fan sfegatato dei titoli alla Commands and Colors, pur sapendo che i ben più complessi titoli della serie Great Battles of History sono storicamente molto più plausibili.

Se adottiamo questa classificazione potremo comprendere se un determinato gioco vale la pena di essere giocato o no, considerando quanto poco tempo possiamo dedicare ad una delle più nobili occupazioni della nostra mente.

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